"Foregguo po dhelo (*), Ballo come voglio"
Tarantella e socialità nell'Aspromonte greco
Certamente sappiamo che la festa e la danza tradizionale erano due elementi indissolubili nel mondo popolare greco-calabro almeno sino alla seconda guerra mondiale. In tutto lAspromonte greco comprendendo anche larea di Cardeto (ellenofona sino al primo novecento) ballare era una condizione decisiva addirittura per potersi sposare. Si facevano chilometri a piedi per ballare e nei giorni di festa comandata e la comune vita del paese era sospesa per consentire suono e ballo ininterrotto. Nella società tradizionale le occasioni di ballo, sia domestico (feste in casa più o meno occasionali) che pubblico (festa del santo, matrimoni, battesimi, carnevale, etc.) erano gli unici momenti in cui i giovani potevano, per lo meno, guardarsi seppure sotto il controllo ferreo del capo famiglia e magari aspirare a fare un breve giro di danza assieme. La stessa danza avrebbe portato con sé loccasione di leggere, attraverso tutto il codice simbolico coreutico del corteggiamento, la possibilità di un assenso sentimentale negli occhi o nelle mani di un ragazzo o di una ragazza. Varie testimonianze raccolte nelle aree citate confermano che un bravo ballerino trovava più facilmente moglie. Danzare era unoccasione per mettere in mostra destrezza, abilità e fierezza negli uomini, garbo, portamento e femminilità per le donne. "Mettersi in mostra" con un bel giro di tarantella, in sostanza, avrebbe facilitato ed accelerato il fidanzamento. Un bravo ballerino in famiglia era cosa molto gradita. Tutto ciò ancora sino agli anni 60/70 del 900.
Ma danzare, prima della disintegrazione definitiva del cosmo antropologico ellenofono dellAspromonte, avvenuta in tempi relativamente recenti, era comunque un fatto sociale di grande rilevanza, una forma comunicativa adatta ad esprimere i bisogni, i messaggi e gli stati danimo più complessi e differenti. La stessa danza tradizionale era sacra nelle occasioni di festa religiosa per chiedere grazia, per mantenere un voto o per semplice devozione, profana per celebrare il Carnevale con le sue colorazioni pagane ed edonistiche (famoso era quello di Bova, scomparso con gli anni '60), assolutamente laica nelle feste domestiche, immancabilmente rituale per matrimoni e battesimi. Si percorrevano chilometri a piedi da una contrada allaltra anche la sera ed al buio per andare a trovare un amico che "offriva da ballare" in una piccola festa familiare. Con la stessa passione si sarebbero affrontate le sette ore a piedi per andare sino a Reggio per farsi un giro di tarantella alla festa della Madonna della Consolazione o altrettante per raggiungere Polsi e ballare fuori il santuario.
Una fiaba ellenofona "I tre fratelli"(*), raccolta probabilmente nella bovesìa e pubblicata da Luigi Bruzzano sul numero del 15 dicembre 1889 de "La Calabria" conferma il grande valore simbolico socialmente attribuito non solo al ballo quanto al danzare bene.
Tre fratelli dopo la morte del padre decidono di andare soldati per trovare fortuna. Uno dopo laltro, durante le notti di guardia, si imbatteranno in un gigante che li sfiderà a duello. Naturalmente lalternativa è fra la morte del soldatino o un dono magico da ricevere contrastando il gigante. Tutti e tre i fratelli riusciranno nellimpresa. Sempre il gigante ferito ammetterà il valore del contendente consegnandogli alcuni premi fatati. Anche i doni sono tre: una borsa inesauribilmente piena di monete, un mantello che rende invisibili ed un paio di stivaletti che fanno correre veloce e ballare bene. Reduci dal militare i tre fratelli inizieranno a condurre una vita agiata sino a quando il più piccolo non decide di partire portando con sé prima la borsa dei denari e poi gli stivaletti. Una principessa cattiva, simbolo inequivocabile di una nobiltà avida e ben poco "fiabesca", si impossesserà di questi due doni magici con la forza, minacciando di imprigionare il piccolo eroe. Alla fine i primi due doni del gigante saranno poi riconquistati con furbizia e con lutilizzo del mantello che rende invisibili nonché la principessa cattiva immancabilmente punita. La fiaba ci conferma il grande valore culturale e sociale attribuito, potremmo dire, allo "status" del buon danzatore. Difatti la principessa cattiva vedendo ballare bene il piccolo eroe prima gli chiede lezioni di danza per ben quindici giorni ma dopo, capendo che la virtù è negli accessori fatati, si impossessa con la forza degli stivaletti.
(...) Ejai isa isa eci cindo palazzo azze abballo, embichi foreggonda. Horonda i principissa tupe: | (...) Si recò subito a quel palazzo ove si ballava ed entrò ballando. La principessa gli disse: |
Per chi conosce il mondo coreutico popolare questa fiaba potrebbe portare con sè una contraddizione. Nella danza tradizionale il ballo maschile e quello femminile sono molto differenziati. Normalmente, ancora oggi, non è apprezzato uno stile "masculinu" in una donna e quello "fimmininu" è imitato dagli uomini solo ironicamente. Per cui molto probabilmente quello che la principessa vuole carpire alleroe della fiaba è il segreto del ballare bene. Non si tratta, con gli occhi di oggi, della richiesta di quindici giorni di lezioni di danza. Dunque la principessa è interessata alla qualità del ballare, a ciò che rende quel modo unico ed insuperabile. Difatti non è un problema di passi e di figure. Quando la principessa comprende che la virtù è nelloggetto, si impossessa degli stivaletti di colpo balla "bene", ottiene ciò che cerca e chiama le guardie perché caccino via il protagonista.
Fra le varie testimonianze raccolte sul valore attributo non solo al ballo ma anche al "saper ballare" inteso come ben figurare in occasioni pubbliche e private è abbastanza significativa quella riferitami da Santo Crisèo, musicista e danzatore tradizionale di Bova. Erano gli anni della seconda guerra mondiale. Santo, allora ragazzino, andava a prendere lacqua con i muli e le botti un po fuori paese. Naturalmente il tempo per riempire le botti non era breve perché fra laltro lacqua di quella fonte scorreva lentamente. Fu così che Santo prese labitudine di appendere la giacca ad un alberello di limone accanto alla sorgente ed a ballare intorno alla pianta per esercitarsi. Si immaginava la musica e ballava. Col passare del tempo ci prese sempre più gusto sino a quando arrivò a passare molto più tempo ballando con lalbero che a riempire le botti. La cosa andò avanti per alcuni anni e tutte le volte che il giovanotto andava alla fonte a prendere lacqua. Il terreno intorno allalbero era così compatto e calpestato che non riusciva a crescervi nulla. Santo racconta che ancora oggi intorno a quel limone non cresce più lerba.
Dove ballare danza tradizionale grecanica:
Il ballo "pubblico" è molto in crisi in tutta l'area grecanica. Tuttavia nelle occasioni di festa e nelle località più conservative culturalmente, è possibile con un po' di fortuna assistere a momenti "a ballu".
In tal senso è stata sin qui un'ottima occasione il festival dell'area grecanica Palearìza.
Come iniziativa di concreto recupero con criteri didattici qualitativi della musica e della danza dell'Aspromonte greco segnaliamo "Megalochoro" - Danza Tradizionale in Calabria, stage annuale di danza e di strumenti tradizionali con sede permanente a Cataforìo (RC)
(*) Il testo di fine ottocento fu probabilmente allora trascritto dal ricercatore "così come ascoltato", questo giustifica forme come "foregguo" in luogo di "choregguo", etc. La fiaba è presente in : Ottavio Cavalcanti, Re, maghi, briganti, poveri e fate..., Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 1999
Note: La bibliografia sulla danza tradizionale in Calabria e in Aspromonte è pressoché inesistente. Numerosi invece sono i tentativi di collegare l'attuale mondo etno-coreutico direttamente con la remota età classica con risultati tutti da verificare dato, per lo meno, l'impressionante gap temporale
In merito alla danza tradizionale in Calabria segnaliamo comunque:
(A cura di) Ettore Castagna, AA.VV., Danza Tradizionale in Calabria, Coop. "R. L. Satriani", Catanzaro, 1988.